E' tornato Vinicio. E' passato Vinicio. Ieri l'altro, al Poble Sec.
Vinicio, grosso, grasso, nero e ingombrante, è in realtà basso, come tutti i grandi, e non è grasso, ma sì ingombrante. Nel senso bello del termine. Come entrare in un vecchio magazzino attraverso la porta del retrobottega. Permesso sì, scusi, grazie. Accedere a luoghi pieni di polvere, storia, luce e magia. Candelabri, pianoforti, strumenti scientifici, quadri dell'800, tele stampate, mobili, soprammobili, ninnoli, scheletri, manoscritti, sestanti, chitarre, vestiti, animali impagliati e altri innumerevoli tesori che hai conosciuto soltanto nei libri illustrati. Vinicio e il suo spettacolo Marinai, Profeti e Balene, con il pianoforte a coda messo di traverso, cioè a dritta, dove il pianista non è un pianista ma un timoniere, intorno al quale si squadra la ciurma sotto agli alberi immaginari. Glauco, Zeno e Mauro a mezzana, Vinicio e Vincenzo a maestra, Asso e Francesco a trinchetto, salpando in un rumore di catene e presagi, sotto una chiglia rovesciata, il ventre di un balena, la bocca di un capodoglio. Io, che ascolto il disco solo adesso che scrivo, al concerto mi lascio trascinare dall'onda lunga, lenta e notturna di parole e dalla marea di strumenti che l'equipaggio manovra alla perfezione d'orologio, con maestria di lungo corso di chi sa dove va anche nel buio pesto. Io sono al secondo piano e mi ammareggio del ritardo, è come stare arrampicato a prua mentre piove ed è notte, e tutti gli altri sono sottocoperta ingozzandosi di rhum, e ridendo. Oh well. Mi piace guardare il marinaio di palco che cambia le chitarre, i cappelli e i vestimenti a Vinicio e poi spunta fuori e mima il polipo, il ciclope e il palombaro. Mi piace godermi la pachidermica paraphernalia di Vinicio, sapere che è la naturale estensione spettacolare della sua musica, dei testi e della sua testa bacata. Coleridge, Conrad e Melville sono dalla sua parte, ma ci sono anche i tre catalani di Cabo San Roque, il suo spagnolo da italiano in gita e i grappoli di compatrioti e compatriote, occhi che guardano e saltano da una parte all'altra, che girano, cercano, segnano, appuntano, dicono e dimenticano. C'è un'altra volta Vinicio, con la sua feluca e la sua gabardina, fermo negli anni e nella poetica dell'illusione della felicità, l'inganno dell'amore e la condizione umana, a condizione che sia mitica e mitologica. C'è Vinicio che ci uccide alla fine con Le Sirene, e non importa dove lo trascini la prossima tempesta artistica domani. Il suo genio, come un mago, uscirà sempre dalla giubba fradicia una carta come Le Sirene, magicamente asciutta e bella, come la salvezza quando sembra che tutto è andato perduto. E c'è il Vinicio delle taverne che ci ha fatto Che coss'è l'amor e altri oldies but goldies in memoria delle sue notti al Poble Sec nel Tinta Roja. Anche se il lupo perde il pelo e beve solo in ufficio, noi contenti.
12 anni fa
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